La scena onirica sul teatro dello psicodramma

Claudio Giacobbe

 “ … il sogno [è] una cosa viva, ben lungi dall’essere una cosa morta che fruscia come carta inaridita. E’ una situazione viva, come un animale con le antenne o con molti cordoni ombelicali. Non ci rendiamo conto che, mentre ne stiamo parlando, il sogno sta producendo qualcosa. Ecco perché i primitivi parlano dei propri sogni e perché io parlo di sogni. Siamo mossi dai sogni, essi ci esprimono e noi li esprimiamo, ed esistono coincidenze collegate a essi.”[1]  (C.G. Jung, Analisi dei sogni, p. 89)

Una sessione di psicodramma

Un uomo sui quarant’anni racconta un sogno:

“É un percorso, come nelle favole. Cammino lungo una strada impervia, in una strettoia incontro un barbone seduto per terra. È giovane, ha un viso duro, cattivo e mi guarda con occhi ironici, dispettosi ed impietosi. Mi chiede qualcosa ma io lo evito, lo ignoro. Lui allora reagisce e mi fa un taglio nella coppola che avevo in testa. È un ‘sette’ che la rende importabile. Sono arrabbiatissimo e si crea una tensione  che tende allo scontro fisico, evitato dal fatto che superiamo una porta e ci troviamo in un altro luogo popolato di gente. Qui la tensione si stempera e la sua figura scompare. Mi trovo vestito da barbone con le scarpe larghe e i piedi che ci ballano dentro, forse le ho prese dai rifiuti, ‘hanno proprio fame’. I pantaloni sono larghi e mi cadono giù dai fianchi”.

Giacomo[2] commenta che nella notte si sveglia e vuole alzarsi per andare a scrivere il sogno ma prova una sorta di vergogna, un timore di disturbare gli altri che dormono. Viene invitato ad alzarsi dalla sedia, a raggiungere il conduttore al centro della stanza (palcoscenico) e a  giocare[3] questo momento del risveglio.

È in vacanza nella casa di montagna con la moglie, la figlia e la famiglia della cognata. Chiama in scena la moglie, accanto a lui nel letto; la figlia di otto anni, che dorme nel lettino e il cognato che riposa in un’altra stanza. Dispone le persone nello spazio come erano quella notte[4].

È notte profonda e Giacomo si sveglia ancora tutt’uno con la storia vissuta nel sogno.

Il conduttore è dietro di lui, con una mano a contatto della spalla dialoga con il protagonista come se fosse una voce del suo mondo interiore e lo aiuta a dar corpo ai vissuti.

Giacomo vorrebbe accendere la luce e alzarsi per andare a scrivere il sogno ma è come impietrito, schiacciato da una forza che lo rende inerme.

“Ho paura di disturbare, è vero potrei procurare un disagio agli altri ma è come se commettessi un gesto pericoloso. Ho paura di essere scoperto, notato, provo una vergogna profonda che non ha forma”.

Sulla scena ha difficoltà a muoversi, non osa guardarsi intorno, si muove a tentoni, non accende la luce, rischia di scontrare oggetti e di far ancor più rumore; forse vorrebbe avere un corpo non fisico, trasparente. L’immagine è intensa, sia per il corpo che si è fatto curvo e dimesso, sia per l’espressione, un intreccio di paura, vergogna e terrore. Ricorda il personaggio interpretato da Paolo Villaggio, il Fantozzi del “mi scusi”, ma senza l’aspetto ironico e burlesco. Qualsiasi gesto, verbo è ormai compromesso, si ferma sperando di scampare il pericolo, senza saper bene quale.

Non è tanto la figlia, la moglie o il cognato, a causare il vissuto di paura; anche se nel rimando alla fine dei giochi, nel momento della condivisione, la donna che ha interpretato la figlia, comunica un vissuto di paura nel vedere il padre alzarsi dal letto in piena notte. Ma qualcosa che va al di là, che non sta tanto sul piano della relazione interpsichica, anche se da questa messa in evidenza e da questa forse alimentata, quanto dal piano intrapsichico, da sedimentazioni che si sono formate nel  mondo interiore durante la sua storia individuale e durante l’intera storia dell’umanità.

“Qualcosa che è dentro di me…sta in ieri…nei primi anni della mia vita…nei primi anni di esistenza dell’essere umano…una paura di essere visto, di essere notato da qualcuno…di farlo arrabbiare e di correre un pericolo…mortale”.

Sciolta questa prima scena e mandati a posto i co-protagonisti, il conduttore invita Giacomo a rappresentare il sogno. Vengono chiamati e personificati il barbone, la coppola, il Centro Storico[5] e la porta di confine tra un luogo e l’altro.

La scena è ambientata nelle vie di un Centro Storico. L’incedere è spensierato e baldanzoso, non curante dell’esterno, dell’ambiente e delle persone che gli stanno intorno, nota appena il barbone – mendicante, il movimento è completamente diverso, quasi opposto, alla scena precedente.

“Un po’ come avviene quando si cammina per le strade della città e non si ha voglia di essere disturbati da nessuno, non si hanno occhi per notare le cose e le persone che si incontrano”- racconta.

La figura del barbone – mendicante non ha nessun gradiente, non c’è relazione e comunicazione.

Il conduttore è alle spalle del protagonista e dice: “Cosa succede?”. “Non sento e non provo niente, come se non ci fosse, non esistesse. E’ una presenza che non mi tocca, non mi fa provare”- dialoga Giacomo.

L’espressione del viso nella scena è completamente diversa da quella della notte del risveglio, è una maschera che ha a che fare con il bianco. È come se fosse anestetizzato, è l’indifferenza che annulla la relazione con l’altro ma non sembra essere un momento di pienezza interiore bensì di mancanza, di vuoto e di estraniazione.

“Mi fa venire in mente – dice – la mia apatia, i momenti in cui mi lascio andare senza nessun senso, senza che nulla sia importante, sino a che impatto, sbatto di testa e mi riprendo. Come da bambini certe volte un vigoroso rimprovero ci riporta alla realtà: è un impatto che mi fa ‘vedere’, che mi fa prendere contatto”.

A questo punto accade qualcosa, sia nello spazio, il vicolo diventa più stretto, sia nella relazione, la persona sfumata e inconsistente si alza e lo colpisce sul capo. Giacomo, sorpreso, è costretto a guardare l’altro, a coglierne le caratteristiche fisiche e psichiche: giovane, viso duro e sguardo tagliente, occhi ironici e dispettosi.

Iniziano a prendere forma gli oggetti, i sentimenti, le emozioni. Il vagabondo – mendicante vuole in qualche maniera comunicare e rispetto all’atteggiamento di esibita indifferenza di Giacomo reagisce colpendo la testa e facendo un taglio[6] alla coppola che il protagonista associa ad un gesto all’interno di un contesto mafioso.

Invitato a cambiarsi, a immedesimarsi con il vagabondo, il sognatore dice: “Sono uno al di la delle regole, sono qui che aspetto, sono vero ma posso anche non esserci, in questo momento mi sento vero e voglio farmi vedere, lo aspettavo e il fatto che mi abbia ignorato con quell’atteggiamento provocatorio mi ha fatto reagire con violenza”.

Immagine confermata, nel momento della condivisione successiva alla rappresentazione, anche dal rimando della persona chiamata ad interpretare il mendicante.

Fatto immedesimare con la coppola il protagonista assume una posizione fisica ed un tono della voce che riportano all’affermazione di una forza, di un potere che si presenta con una smorfia tra un atteggiamento di violenza  e un altro di farsa. Dice: “copro il capo e do tono, appartenenza e protezione, è un affronto e una ferita gravissima ciò che mi è successo; ci vuole vendetta e riparazione”.

Il Centro Storico viene reso metafora di un luogo antico, di un centro-cuore pulsante della città, pieno di umanità, di relazioni, di stretti scambi, di contatti, di conflitti, di vicinanza e di condivisione.

La porta che separa viene animata e si presenta con il protagonista che si immagina come un cancello lungo una strada e come separazione tra due luoghi diversi; una frontiera di due paesi ed un confine dove è necessario dichiararsi e non sempre è possibile passare il confine, non sempre il cancello si apre.

Sciolta la scena a Giacomo vengono in mente episodi dell’infanzia, quando a passeggio con la madre, incontrando altre persone conosciute, egli si nascondeva dietro la sua gonna. Viene invitato a rappresentarne uno: ha cinque anni, è domenica, viene vestito, pettinato, profumato, messo il braccialetto e la catenina d’oro e, preso per mano, insieme alla madre si avvia in paese. Tutte le persone che incontrano fanno i complimenti alla mamma, ma lui è a disagio e cerca di nascondersi dietro il corpo della madre, che è infastidita da questo suo comportamento e a forza lo trascina davanti a se. Giacomo piagnucola e la madre lo prende in giro, lo canzona e poi si arrabbia.

“Voglio nascondermi, ho paura, voglio tornare a casa e giocare con i miei giocattoli, con le mie pietre, mi sento in pericolo, odio la mamma che non mi protegge, la signora Pina è cattiva, sono tutti cattivi, sono in pericolo”.

La madre, dopo qualche minuto, lo porta via dicendo “È un bambino timido”; in parte è arrabbiata, in parte è contenta, il figlio è tutto suo, solo suo.

Nella prima parte della scena, quando la madre lo prepara, c’è uno sguardo di Giacomo che si perde negli occhi e nel corpo della madre; un lasciarsi andare completamente e un reciproco rispecchiarsi l’uno nell’altro. Un gioco molto intenso e fusionale che commuove Giacomo e anche la persona chiamata ad interpretare la madre.

La situazione quale è

                      “Anzitutto non si sa che cosa si sprigiona quando si iniziano a analizzare i sogni. Forse si mette in moto qualcosa di intimo ed invisibile; molto probabilmente si tratta di qualcosa che sarebbe comunque affiorato alla luce più tardi: o forse non sarebbe mai emerso. E’ un po’ come scavare un pozzo artesiano per finire di imbattersi poi in un vulcano.” (C.G. Jung, 1917/1943)

 

Il sogno inizia con alcune affermazioni che ci danno l’idea del contesto dove ci muoviamo: “è un percorso, come se dovessi passare delle prove, mi ricordano quelli delle favole”.

Il percorso della trama onirica rimanda al sognatore un ambiente fiabesco, un viaggio che ha il carattere metaforico che trascende la realtà e rimanda a figure alla continua ricerca di una terra promessa cui sono piene la mitologia, la fiaba appunto, la storia, le religioni, la letteratura.

Dopo il passaggio della/dalla porta, Giacomo si trova in un ‘altro luogo’: l’apertura al nuovo e il successivo doversi misurare con le proprie capacità d’adattamento e di versatilità. Un viaggio alla ricerca di ‘qualcosa’, quindi di passaggio: immaturità-maturità, inteso non come uno stadio finale, ma una condizione dell’esistenza, un tratto umano e psicologico tra i più fecondi, un luogo dell’anima.

Nella trama onirica la figura del barbone-mendicante sembra essere espressione delle paure del sognatore, viste non tanto in conseguenza a delle azioni compiute dall’Io, ma come vengono viste dal Sé. È importante che l’Io cosciente sappia distinguere e prendere distanza pena l’inflazionamento, stabilisca in che modo questi atteggiamenti si manifestano nella vita di ogni giorno, se mai lo fanno. Sognare di essere un assassino, o di essere inseguito da qualcuno, implica la necessità di riconoscere e affrontare il sentimento omicida come qualcosa che già esiste nella propria vita[7].

In un primo momento, l’Io del sognatore rimane indifferente, se l’altro non esiste non c’è differenza ma indifferenziato, sembra non voler considerare, non voler dare e non voler ricevere nulla dalla figura che gli sta di fronte. Forse è il residuo di una forma di difesa di un Io poco strutturato e fragile che ha avuto paura ad affrontare nuove strade, nuove relazioni, nuove conoscenze. Spesso ci vuole un Io forte per affrontare certe figure dell’inconscio.

Ma il complesso del barbone è stato visto e la relazione può, deve essere affrontata.  

Il mendicante irrompe e crea tensione, ritiene necessario il confronto e non più prorogabile.

In questo caso anche lo spazio diventa stretto, non è più possibile passare senza toccarsi, guardarsi o fare finta di niente. L’Io avverte il pericolo ma non può più fuggire, è costretto ad affrontarlo, a confrontarsi[8]. Viene toccato nella coppola, ‘taliato’ e costretto a vedere, a guardare.

La coppola rimanda alla mafia. Forse maschere che rappresentano dinamiche dell’Io con il mondo esterno. Dinamiche rigide, scontatamente rigide e quindi anche molto semplici, elementari e primitive. Un esterno forse un po’ troppo facilmente svalutabile e troppo svalutato per affrontare un ‘vagabondo’. Forse anche una modalità di relazione, di sentimento coatta: non si può essere diversi, non si può provare qualcosa per altri (fuori dalla ‘famiglia’) perché è tradimento. Il sentimento è appartenenza: è vincolante, imprigionante, impedente. L’accorgersi dell’altro è essere diverso, un diventare diverso, ma anche essere identificato.

Ma cosa può rappresentare il barbone – mendicante?

Può essere un aspetto del ruolo sociale: il vagabondo come rifiuto/rifiutato, della/dalla società; un complesso che nasce nel/dall’inconscio e quindi non ancora (ri)conosciuto, e visto quindi come vagabondo senza casa (dimora), senza famiglia (relazione, affetti), senza appartenenza ad una forma/istituzione. O anche una figura fuori dagli schemi, fuori da regole date, che è quello che prende corpo nell’interpretazione psicodrammatica.

Vuole qualcosa dal sognatore, rompe l’apatia, l’assenza di pathos, del patire e dell’agire, l’indifferenza alla relazione con le forze dell’inconscio.

Il vagabondo vuole proprio Giacomo e allora lo deve toccare, lo deve colpire, se passasse oltre tutto rimarrebbe come prima e lui non se ne accorgerebbe. L’intenzionalità dell’inconscio ferisce, apre una dialettica, una ferita, Giacomo toccato entra in relazione; da un indifferenziato ad un differenziarsi (acquisire gradualmente specificità, distinguersi). Giacomo è qualcuno, qualcosa, diventa lui il barbone, l’Io è entrato nella trama dell’inconscio, si è fatto barbone-vagabondo con tutte le inadeguatezze.

Mendicante è anche uno stato di bisogno, non ancora riconosciuto, anche se non proprio disprezzato. Non essendoci un riconoscimento che accolga (d’altronde lo sconosciuto non può essere immediatamente conosciuto) si apre uno spazio di sospensione che crea tensione.

Avendo tenuto separate queste domande di bisognosità l’incontro porta ad una proiezione, ad un rifiuto e ad una rimozione, all’indifferenza. Ma questa volta non è più possibile essere indifferente per Giacomo: la strada è ormai troppo stretta e avviene il contatto.

Il bisogno lo fa sentire inferiore, dipendente, disprezzato e quindi non ri-conosciuto (la paura di alzarsi e di essere visto, la vergogna). Bisogno collegato a dinamiche profonde con le figure parentali, dove la dipendenza è agita e poi rifiutata e il bisogno-dipendenza del figlio, preso in giro e ferito. La madre voleva un bambino più intraprendente e sicuro di sé come aspettativa, come proiezione sul figlio di una propria inadeguatezza ma contemporaneamente è contenta dell’abbraccio fusionale del figlio, di un figlio tutto e solo suo.

Nella scena onirica avviene l’incontro e il riconoscimento, tanto che il sognatore diventa lui stesso barbone – mendicante. La bisognosità sembra manifestarsi non solo nella figura del mendicante ma anche nel particolare delle scarpe: ‘hanno proprio fame’. Le scarpe oltre a rimandare ad una simbologia femminile/maschile (piede), in questo caso essendo più grandi, insieme all’abbigliamento trasandato e non curato possono indicare l’inadeguatezza rispetto al ‘nuovo’, tipica dei momenti in cui è avvenuto un cambiamento, una trasformazione. In accordo con altre parti ancora da trovare e integrare.

Accoglierlo è fare i conti con una condizione di indigenza molto profonda che è stata messa da parte per affrontare la vita, il mondo; è stata rifiutata e proiettata sull’altro, rifiutandone gli atti di debolezza. E, più profondamente e interiormente, nell’aver tenuto lontano le emozioni di dipendenza. 

Accogliere è affrontare la tensione e viverne la condizione e porsi così al mondo, agli altri. Anche se nel sogno sembra essere ancora una figura svalutata, oggi la relazione e l’incontro sembrano possibili e auspicabili.

In questo caso il sogno indica una realtà psicologica cui il sognatore si opponeva, anche con l’indifferenza, e che cosa bisognerebbe fare per integrarla. [9].

 

“Il sogno è un’autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio espressa in forma simbolica.

(C.G. Jung, 1916/1948)

 

Psicodramma in una seduta individuale

Caterina da alcune sedute porta la difficoltà e la non voglia di venire in terapia. La vacanza natalizia e il prolungamento di questa per un mio viaggio le rendono assai difficile ritrovare il senso nella/della relazione.

Il vissuto che nasce dalla separazione è per lei un sentimento insopportabile per sé ma soprattutto verso l’altro, e la fa sentire pesante, noiosa e lagnosa. Dei genitori sempre in conflitto ed una madre gravemente depressa non le hanno permesso di poter esistere nei suoi bisogni, costringendola a trascorrere molto del suo tempo rannicchiata nella sua stanza e fancendole introiettare un forte senso di colpa e di inadeguatezza.

Il precedente lavoro su questi aspetti aveva  portato a prendere contatto con una parte fredda, ghiacciata, “devitalizzata”.

La nostra separazione ha probabilmente costretto Caterina a richiudersi in questo vissuto, per lei rassicurante, protettivo e meno doloroso.

In una precedente seduta aveva parlato dei suoi sentimenti nei miei confronti: il timore di annoiarmi, di essere pesante, la vergogna  a farsi vedere così lagnosa.

In questa seduta Caterina comunica questa immagine onirica: è su un divano, accartocciata a forma di palla, con di fronte a se una libreria e fuori dalla finestra vede una casa a forma di otto, forse in forma verticale, 8 o forse in forma orizzontale ∞.

Sento la necessità di lavorare sull’immagine onirica avvertendo la possibilità, attraverso tecniche psicodrammatiche, di aiutare il contatto tra psiche e soma, tra l’idea e la percezione attraverso il vissuto. Contatto che può avvenire alla presenza di un altro e di poterlo finalmente condividere non solo attraverso il verbo.

Le chiedo di ricordare un momento dell’infanzia in cui lei si sentiva così. Piccolissima, è nella sua stanza e vorrebbe chiamare la madre ma non può disturbarla perché è a letto malata. Si rannicchia e rimane li ferma.

Le propongo di assumere la stessa posizione e di “rivivere” l’immagine onirica. Caterina si alza dalla poltrona, si va a sdraiare sul lettino e assume una posizione ripiegata, ginocchia sul petto con le braccia intorno, occupando minor spazio possibile. Chiude le mani a pugno, serrandole e cercando di nasconderle, anche il viso è ripiegato sulle ginocchia. Sembra un animale con un atteggiamento di autoprotezione. Pur non vedendole percepisco le lacrime che le scendono sulle guance.

Lascio che il vissuto possa farsi spazio, abitare nel “qui e ora”  e poi inizio a dialogare con lei stimolandola a tradurre in verbo ciò che sta provando[10]. “Cosa provo?” – dico. “Dio prendimi” – dice con voce triste, flebile, con le lacrime che le scendono silenziosamente e girandosi a guardare la finestra e la casa a forma di otto[11].

Provo, con una parte di me, a immaginare di essere rannicchiato, assumendo la sua postura e  contemporaneamente a staccarmi e guardare e mi viene da dire, “mi sento pesante, provo fastidio, mi sento un ingombro, vorrei che Dio mi pigliasse e mi portasse con sé”. E lei: “Si, è brutto vero?! Sono bruttissimi pensieri, me ne vergogno tantissimo, è la prima volta che li confesso a qualcuno”.

Dopo aver accolto questo sentimento di vergogna e di paura di essere pesante, di spaventare e preoccupare l’altro, e rendendomi conto che era ritornata in relazione con me nel presente, le ricordo alcuni suoi sogni dove lei veniva in seduta e l’analista le comunicava che si trasferiva e andava a lavorare in un’altra città.

Ricordo che le prime volte riflettei sul fatto che il suo inconscio potesse percepire delle mie paure inconsce. Forse poteva esserci qualcosa del genere ma venne fuori naturalmente un aspetto proiettivo della sua paura di essere troppo “pesante” per me, come si era sentita rispetto alla madre, dato che non aveva mai potuto condividere momenti depressivi e anche rispetto ad alcune relazioni significative della sua vita. E lo accettai come aspetto allora prioritario.

Sento importante rafforzare un elemento di realtà e allora le chiedo di recuperare un momento dove non si percepisce come un peso, dove può sentirsi accolta.

Ricorda il recente incontro con la figlia di 7 anni di un’amica.

Le chiedo di rivivere quell’episodio. Sempre rimanendo seduto dialogo con lei o come suo doppio o come doppio di alcuni personaggi della scena.

Nel ricordo la bambina arriva, mentre lei si sta ancora preparando; va ad aprirle il marito. É molto che non si vedono e Caterina è eccitata e incuriosita su come sarà cambiata, quali nuove domande le farà. Appena la vede in fondo al corridoio la bambina corre verso di lei e le salta in braccio. Dico, parlando molto lentamente in modo da dare corpo alle parole, “sono Caterina abbraccio e sono abbracciata, cosa provo? Cosa sento?”. “Sono contenta e lei è contenta di me” –dice.

Nell’immaginarla e riviverla insieme a me Caterina prova ad andare oltre il vissuto di inadeguatezza, prova a percepire un rispecchiamento e un riconoscimento, subito dopo il desiderio di chiudere a qualsiasi relazione che aveva vissuto nel sogno (“Dio prendimi”).

Un’apertura alla relazione nella quale l’una si rispecchia ed è rispecchiata dall’altra.

E’ significativo che nel cambio con la bambina, cioè nel momento in cui le chiedo di immedesimarsi, di immaginare di essere la bambina, lei non “provi”, non percepisca, dica “sono artificiale, non riesco a provare ciò che potrebbe sentire lei”.

In questo esempio il lavoro con tecniche psicodrammatiche ha aiutato Caterina a percepire due parti di se separate, scisse. Una parte fredda, ghiacciata, congelata e devitalizzata che emerge nel momento in cui si immedesima nella bambina, quella che probabilmente ha desiderato di morire poiché rifiutata. E una parte capace di provare, di sentire e di aver voglia di vivere; che è desiderata e che può desiderare.

  

Psicodramma e scultura dell’immagine

Scrivo ora di una sperimentazione sull’immagine onirica. Si tratta di un lavoro fatto con un gruppo all’interno di un’esperienza residenziale che si è sviluppata nell’arco di tre giorni nel fine settimana. Lo stimolo è quello di lavorare sulle immagini oniriche, attraverso tecniche di psicodramma, elaborando elementi che aiutino a destrutturare l’aspetto prevalentemente segnico assegnato alle immagini. Creare un ponte (collegamento), tra intelletto e percezione, tra concetto e la percezione sensoriale, tra la potenza mediana e mediatrice del simbolo e il dato, e da questo far emergere il vissuto.

Immagine – simbolo  come “materia-prima” (non creata dal pensiero); materia ancora priva di forma e di luogo dove rappresentarsi, poiché la spazio è occupato da “cose” e “forme” interpretate dal pensiero e percepite dai sensi. Non qualcosa che manca, non esiste, ma qualcosa che non è o non si riesce a cogliere.

Seguire, muoversi per immagini; somigliare, corrispondere. Un movimento che avviene sul terreno delle polivalenze, seguendo il principio taoista del “lasciar-essere” e delle non interferenze.

Un percorso inverso a quello che si percorre nel tradurre il sogno nel linguaggio dell’Io: aiutare l’Io ad adattarsi all’immagine, di percorrere un processo digestivo e assimilativo di frammenti e brani (cibo); un’attività di bricoleur, che è uno che si arrangia con tutto, il cui compito è quello di prendere gli “avanzi”, non nel senso negativo ma nel senso di mancanza, di non visto, di ombra, di inconscio, di cibo rifiutato dalla coscienza, e risistemarlo in nuove forme ed entro nuovi contesti: un frugare e rovistare in cerca dei residui.

Nell’esperienza viene poi fatto un collegamento con la storia personale del protagonista, poiché spesso questo lavoro crea confusione e disorientamento: l’immagine può avere un forte impatto destrutturante quando l’Io non è sufficientemente “in rete” con il Sé.

L’immagine raccontata è questa[12]: “un fuoco in un camino con tutte le lingue che salgono”.

A comunicarla è un uomo sui 40 anni, di nome Alessio. Il conduttore lo invita a raggiungerlo al centro della sala e inizia a dialogare con lui per arrivare a rappresentare la scena.

In questo caso l’attenzione ai particolari è molto importante poiché tutte le parti dell’immagine sono da considerare potenzialmente significative, un’unica totalità spazio-temporale.

Vengono scelte tre persone per fare i ceppi; quattro per fare la base e il cuore del fuoco; quattro per rappresentare le fiamme e tutte vengono disposte nello spazio dedicando ad ognuna un tempo e un’attenzione che emergono dal dialogo tra conduttore e protagonista, come se si dovesse costruire una scenografia che deve adattarsi all’immagine e contemporaneamente essere in relazione con i vissuti del protagonista nel “qui e ora” della relazione con il gruppo[13].

Il protagonista guarda la scena-scultura che è estremamente viva, mentre lui è freddo, razionale, descrittivo, ha grande difficoltà a provare e a percepire, è tutto inglobato nella forma pensiero. Non sente e non prova, dando ordini, comandi e infine soffiando sul fuoco. Viene fatto cambiare-impersonare con un ceppo[14].

Il cambio crea immediatamente un contatto fisico intenso: il corpo di Alessio inizia a tremare, come se fosse attraversato da una febbre altissima. Il regista prova a parlargli ma non c’è possibilità di dialogo, di ascolto da parte sua. Prima era il pensiero, la mente e ora è la percezione il corpo. Un po’ come il corpo di un animale esposto alla natura[15], senza nessuna possibilità di poter dar voce ai propri vissuti.

Il conduttore cerca un lieve contatto fisico appoggiando una mano sulla sua spalla. Alessio è rannicchiato in una posizione di corpo unico a sentirsi ceppo e, aiutato dalla parola del terapeuta, viene riportato alla relazione cosciente con la richiesta di guardare il protagonista e di comunicare con lui[16].

Alessio-ceppo dice: “non cercare di comandare il fuoco, non cercare di dare ordini, e soprattutto non soffiare sul fuoco è molto pericoloso”.

Il protagonista viene invitato a ritornare nel ruolo di se stesso e di ascoltare le parole di Alessio-ceppo. Dopo averle ascoltate dice: “devo prendere distanza e lasciare che si dia”.

Nella condivisione[17] un protagonista che ha personificato una parte della fiamma rimanda un vissuto di paura di perdere il controllo, di timore della follia; un altro dice che “governare” è allontanarsi e che ha sentito il protagonista cercare di condurre (governare) anche il regista; un Io-tronco dice che ha percepito calore solo quando il protagonista si è allontanato[18].

Nella rappresentazione emerge la difficoltà di relazione emotiva tra Alessio e la scultura[19], una difficoltà di trasmissione, di passaggio di calore, forse per troppa vicinanza, un eccesso dell’agire, a causa di una miopia che non permette di vedere da lontano. Forse per l’agire del “ti ordino”, per cui c’è bisogno di una distanza e la vicinanza avviene solo per un bisogno di controllo. Nel dialogo tra la parte ceppo dell’immagine e il protagonista c’è questa indicazione.

Alessio non può avvicinarsi al fuoco poiché corre un pericolo di frammentazione. Il fuoco sembra avere a che fare con l’organo del cuore, nella rappresentazione della scultura ad un certo momento si è potuto cogliere un movimento simile a quello del pulsare di un cuore, di una sistole e diastole.

Per il protagonista quindi il partecipare può essere esperito solo sul piano razionale.

Potrebbe essere significativo il fatto che nella condivisione sono state riportate alcune immagini: una di queste è quella di un San Bernardo che incatena il drago o il diavolo, oltre che colpire con la lancia. La titolare dell’immagine l’aveva associata al governare il fuoco.

Un’altra è quella di una bara coperta di fiori e persone che sono sedute silenziosamente intorno che forse celebrano un rosario, o fanno una veglia funebre.

Attraverso questo lavoro l’Io entra nell’immagine: rivive; recupera; incontra interferenze agite, subite e patite, necessarie per creare la capacità di far nascere legami simbolici[20].

 

Sogno e relazione analitica

L’approccio al sogno in ambito psicoanalitico presuppone una definizione delle modalità e dei contesti nel quale viene elaborato il prodotto onirico.  Numerosi sono i fattori da considerare: da una parte quello che si sa del sognatore, la sua storia analitica, il prima e il dopo dell’incontro e tutto quello che viene comunicato durante la seduta; dall’altra il terapeuta e, simmetricamente, quello che l’analista sa di se stesso, la sua storia analitica e le sue condizioni psicologiche di quel periodo.

Come se avessimo degli apporti soggettivi da mettere assieme, una selezione di immagini o temi, un conferire energia a dati punti di vista, che non possono non riflettere la personalità dell’analista, la sua problematica, il modo con il quale sta nella relazione.

Un po’ come un ricevitore radio che opera selettivamente su certe frequenze o come diverse personalità si pongono nel guardare la stessa immagine.[21]

Il contenuto onirico diventa un evento che, nato durante il sonno e ricordato al risveglio, viene riportato in un contesto ben più ampio del racconto dello stesso e delle relative associazioni.

L’esigenza di dare un significato o un senso al sogno ha radici antiche nella teoria e nella prassi delle psicologie del profondo, soggette poi ad evoluzioni, come tutti i campi della conoscenza. Evoluzione possibile se nella comunità degli operatori hanno luogo scambi di esperienze e di teorizzazioni, aspetto assai problematico dato il contesto privato del setting e l’irripetibilità di ogni esperienza analitica.

Ciò che viene osservato va quindi visto e connesso con svariati elementi, il sogno è come un epicentro di un campo complessivo di tutto ciò che appartiene alla vita del sognatore, di come questo entra in relazione con l’analista e di tutto ciò che accade nella relazione analitica.[22]

Il lavoro sul sogno è quindi un momento assai complesso che troppo spesso viene affrontato con l’aspettativa dell’interpretazione giusta o sbagliata in se, che dice tutto ciò che di giusto c’è da dire.

É vero che certe volte capitano dei sogni così ricchi che la loro mancata interpretazione lascia un vissuto di perdita, come di un mistero a portata di mano e non raccolto, tanto che se non lo facciamo sentiamo la nostra inadeguatezza. Oppure incontriamo sogni che ci sembrano così logicamente correlati al contesto, da indurci a ritenere che quando non la vediamo e non la troviamo sia da imputarsi alla nostra cecità (cosa che pensava anche Jung).

Non sempre si è disponibili al rischio che il paziente sospetti che il proprio analista non sappia interpretare il sogno, cosa che invece in certi contesti di pienezza razionale aprirebbe spazi di sospensione e ricerca. Il dubbio viene vissuto come mancanza professionale e, proiettato sul paziente, diventa un’interpretazione comunque.

Ma con il sogno si possono fare molte cose utili.

 

Polifunzionalità del sogno

Dopo Freud sarà sempre più difficile parlare di una “teoria” del sogno. Jung per primo ha dato un decisivo contributo nel rendere impraticabile un programma di questo tipo, attribuendo al sogno una vasta polifunzionalità.

“Ma quante altre cose ci possono essere nei sogni! Possono contenere verità inesorabili, sentenze filosofiche, illusioni, fantasie selvagge, ricordi, progetti, anticipazioni, come anche visioni telepatiche, esperienze irrazionali e Dio sa che cos’altro ancora!”[23].

Trevi scrive: “Jung non crede alla possibilità di una teoria unitaria del sogno. E non vi crede perché il punto di avvio metodologico per un’intuizione della psiche inconscia, matrice del sogno, è deliberatamente non riduttivo. Solo se si parte da un preconcetto sulla natura unica – e pertanto sull’unica funzione – della psiche inconscia si può giungere a una dottrina unitaria e monofunzionale del sogno.”[24]

Occorre ascoltare, chiedere precisazioni su circostanze, personaggi e affetti che essi sollevano, ripetere con le parole del paziente o con le nostre, sottolineare la relazione che il paziente mostra di avere con il suo mondo interiore, mostrare su quali punti si sofferma la nostra attenzione o la nostra emozione, drammatizzare o sdrammatizzare, invitare ad immaginare possibili scenari collegati alle immagini oniriche, rappresentarle, fare tutta una serie di cose che rendono il sogno un evento importante, significativo, condiviso, non concluso, un evento psichico che induce comunque anche in noi un’eco emotiva e fantastica, e che in ogni caso aiuta il paziente a intuire di essere dotato di un ‘interno’, nel quale fluisce un respiro, di cui il sogno è manifestazione.

Si può intendere il sogno come un laboratorio di bricolage (la funzione prospettica di Jung), dove c’è qualcuno che ha lo sguardo più avanti e qualcun altro che ha i piedi più per terra; dove c’è una gran voglia di inventare, di rendere le cose più complesse e organiche (la funzione “automorfica” di Neumann), ma dove, in ultima analisi e semplificando, non c’è nessuno che sappia dove veramente si stia andando.[25]

Giulio Gasca[26] arriva a questa considerazione: i diversi autori che si sono cimentati sul tema, pur partendo da posizioni differenti, affermano che i sogni sono un prodotto del lavoro di una parte della psiche, che si differenzia da quella diurna per l’uso di una trama costruita da immagini, la quale si pone in una dialogicità con la linearità logico-concettuale della veglia, per la libertà dalla necessità di conseguire risultati immediati. In estrema sintesi afferma che il sogno è il risultato di un’attività volta a completare una Gestalt lacunosa integrandovi gli elementi dissonanti.

Possiamo ritrovare qualcosa di simile a questa ipotesi, espresso in termini neurofisiologici, nei lavori di Jouvet, anche se, coerentemente con il suo piano di indagine, egli attribuisce al sogno la funzione di “ri-programmare, ri-equilibrare la rete neuronale”, che l’influenza dell’esperienza diurna potrebbe avere portato troppo lontano dai binari stabiliti dal patrimonio dell’eredità psichica.

Se non ci facciamo afferrare dall’ansia dell’“indefinito” dobbiamo quindi accettare che il sogno possa avere numerose funzioni (anche se solo in parte fin’ora individuate) e che ogni volta ne scegliamo una, ad esempio, in base a ciò che in un dato momento ci interessa maggiormente mettere in luce, o ciò che emotivamente più ci ha colpito; o banalmente, la mancanza di tempo per coglierle tutte. Così scegliamo del sogno date immagini o situazioni. Ciò che ne resta fuori, spesso le parti più incoerenti e incomprensibili, facilmente entra in una specie di ombra e viene difensivamente dimenticato.

Ci troviamo di fronte ad una simultaneità di più funzioni, qualcosa di simile a ciò che accade nella veglia, quando, mentre guidiamo la macchina, ascoltiamo la musica, parliamo con la persona seduta accanto a noi, pensiamo a quando arriveremo o a fermarci all’autogrill e magari siamo in ansia per l’interrogazione a scuola di nostra figlia. Attività estremamente complesse, polivalenti e polidirezionali.

La scena onirica e il palcoscenico dello psicodramma

 

“Tutta la creazione onirica è sostanzialmente soggettiva, e il sogno è un teatro in cui chi sogna è scena, attore, suggeritore, regista, pubblico e critico insieme. Questa semplice verità è la base della concezione del significato del sogno da me definita con il termine d’interpretazione al livello del soggetto. Come dice il termine, questa interpretazione concepisce tutte le figure del sogno come tratti personificati della personalità di chi sogna.”[27]

 

Quando in una seduta di psicodramma viene raccontato un sogno, il conduttore, può scegliere fra tre diverse direzioni, in parte già implicite nel fatto che il sogno sia stato raccontato in quel momento:

  1. far giocare subito il sogno e dai vissuti che emergono elaborare il possibile significato;
  2. far giocare una situazione di realtà della vita diurna che il sognatore collega alla trama onirica, e/o agganciare possibili giochi che recuperino motivi e complessi psicologici personali e attraverso questi collegarsi a momenti del passato e poi infine al sogno[28];
  3. cogliere nella trama del sogno e nella modalità del suo racconto un messaggio che il paziente sta inviando al gruppo in quel preciso momento.

Quest’assunto teorico di riferimento rimane importante come sintesi ma è riduttivo rispetto a ciò che avviene durante lo svolgimento dello  psicodramma, nel quale il conduttore spesso integra tutte e tre le scelte.

Nel lavoro sulla rappresentazione scenica dello psicodramma avviene simultaneamente ciò che per Jung era necessario alla comprensione del sogno: la possibilità di associare e immaginare; il percepire con i sensi (interpretazione teatrale) e il guardare-fermare l’immagine in scena. Infatti per Jung non bastano le associazioni libere, occorre mettere a fuoco, fermare l’immagine e fa questo esempio.  

“Se un tale sogna un ‘tavolo d’abete’, non serve a nulla che egli vi associ la propria scrivania. […] Supponiamo ora che al soggetto non venga più nulla in mente: tale arresto ha un significato obiettivo, poiché denota che nelle immediate vicinanze dell’immagine del sogno vi è qualcosa di oscuro che dovrebbe indurre a riflettere. […] Ciò che conviene fare in tal caso è di ritornare all’immagine, e io uso dire al mio paziente: “supponga per un momento che io ignori il significato delle parole ‘tavolo d’abete’, e mi dia Lei una descrizione dell’oggetto e della sua particolarità, tale da farmi capire di che cosa si tratta.”[29]

Le immagini sono qualcosa di diverso dai concetti, che restringono entro limiti razionali, privando, staccando dalla materia i vissuti e le emozioni, togliendo corpo all’immagine. È diverso descrivere il contenuto di un immagine dal disegnarlo, dal farne una scultura, dal coinvolgere il corpo e danzare o drammatizzare il contenuto dell’immagine in una scena psicodrammatica.[30]

Nella rappresentazione psicodrammatica il protagonista con il cambio di ruolo[31] può diventare quel tavolo, è il tavolo e può essere aiutato con il doppiaggio[32] del conduttore a esperirlo (“Sono il tavolo d’abete, come sono? Cosa sono? Che parte di me sono?”).

Ma nella messa in scena del sogno può anche avvenire una rappresentazione della relazione analitica, della relazione paziente-terapeuta, come è vista dall’inconscio del protagonista, quando nel sogno è presente la figura dell’analista che viene personificata ed interpretata da un membro del gruppo. Questo permette un’interazione tra la coppia e attiva ulteriori processi, dinamiche e movimenti attraverso l’insight: un gesto, uno sguardo, un vissuto che emerge nel momento della  “interpretazione”, che viene con più evidenza sentito e quindi accettato o respinto.

L’irruzione sorprende la coscienza che la può respingere, se particolarmente di difficile digestione, ma non può negarla. Un’esperienza che permette di esperire sullo stesso piano interpretazione verbale e interpretazione scenica (sensazioni, percezioni e affetti sono fisicamente in contatto con il paziente e con l’analista).

 

Riferimenti bibliografici

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Claudio Giacobbe è analista di formazione junghiana e psicodrammatista. Didatta presso la Scuola COIRAG, è responsabile del Training dell’APRAGIP di Genova. Collabora con la rivista Psicodramma Analitico ed è stato direttore di Fanes, periodico di cultura psicoanalitica: in queste riviste sono apparsi la maggior parte dei suoi scritti. Recentemente ha pubblicato un contributo dal titolo La metafisica va bene, ma accertarsi che ci sia la fisica. Psiche e corpo nella scena psicodrammatica, in, Giochi del corpo e delle emozioni nello psicodramma analitico, a cura di G. Gasca e L. Strabella, Moretti & Vitali. Vive e lavora a Genova.

 

 [1] E continua: “Ci rifiutiamo di prendere sul serio le coincidenze perché non possiamo considerarle causali. E’ vero, faremmo un errore a considerarle causali; gli eventi accadono non a causa dei sogni, sarebbe assurdo, non riusciremmo mai a dimostrarlo; accadono, semplicemente. Ma è saggio riflettere sul fatto in sé. Se non si ripresentassero con una particolare regolarità, diversa da quella degli esperimenti di laboratorio, neanche le noteremmo; la loro è soltanto una sorta di regolarità irrazionale. L’Oriente basa gran parte della sua scienza su questa irregolarità, e considera le coincidenze, più che la causalità, come base attendibile del mondo. Il sincronismo [sincronicità, cioè coincidenza significativa, come principio esplicativo di eventi paralleli, fisici e psichici, d’importanza uguale e complementare al principio di causalità] è il pregiudizio dell’Oriente; la causalità è il pregiudizio dell’Occidente moderno. Più ci occupiamo dei sogni, più vediamo coincidenze del genere: possibilità. Ricordatevi che il più antico libro scientifico cinese [I Ching, Il libro dei mutamenti] tratta dei possibili casi della vita”.

[2] Giacomo è membro di un gruppo di psicodramma nato nel 1997 che si incontra una volta la settimana e condotto da un unico terapeuta. E’ un gruppo aperto e periodicamente alcune persone finiscono il percorso o lo interrompono e altre le sostituiscono. È composto da un numero di persone che varia tra sei e otto. Al momento della sessione da cui è tratto l’esempio, era composto da sei persone, metà uomini e metà donne; tre di loro alternavano (nello spazio di una settimana), una seduta individuale (con lo stesso conduttore) e la sessione di psicodramma, le altre tre frequentavano solo la sessione di psicodramma. Il caso con approfondimenti diversi è stato pubblicato, C. Giacobbe, Sogno … teatro dell’anima. Percorso del sogno e psicodramma analitico junghiano, in, Il sogno. Dalla psicologia analitica allo psicodramma junghiano, a cura di, M. Gasseau e R. Bernardini, Franco Angeli, 2009

In questa sessione di psicodramma un membro del gruppo aveva aperto l’incontro raccontando un sogno (entrava in un interno di una casa dove c’erano oggetti che ancora non avevano forma), Giacomo era stato chiamato a impersonare questi oggetti che dovevano prendere forma. Alla fine della sequenza dei giochi, nel momento della condivisione, racconta il sogno.

[3] Esiste in generale un pregiudizio che si fonda sul luogo comune che ritiene il gioco una faccenda per bambini che si contrappone alla serietà della vita adulta. In realtà le cose non stanno sempre così perché il gioco prevede delle regole che, non osservate, mettono subito il giocatore “fuori gioco”. Se così non fosse tutti gli altri giocatori non saprebbero più “a che gioco si gioca”. Senza regole infatti il gioco non si costituisce e nessuno si divertirebbe. Quindi il gioco ha una sua serietà e non è l’antecedente della serietà, non è un’attività tipica della fase infantile da cui ci si congeda quando si diventa adulti. Inoltre, per giocare insieme è necessario che tra due o più persone si crei una sorta di “collusione” (dal latino “col-ludere”, giocare insieme).

[4]Il “la e allora” che diventa “qui e ora”. La scena giocata produce la presentificazione: il protagonista rifà i movimenti e così si avvicina a sentire dentro di sé fisicamente le autopercezioni cinestesiche di quello che stava facendo; rivive la scena come se accadesse di nuovo in questo gruppo adesso: lui, gli altri protagonisti chiamati a giocare e il gruppo che assiste (spettatori).

[5] Il protagonista sceglie due persone, un uomo e una donna e le dispone in piedi, uno di fronte all’altro e molto vicini tra di loro a rappresentare una stretta via, un vicolo.

[6] ‘Taliare’ (senza la g) in dialetto siciliano viene usato con il significato di ‘guardare’, ‘vedere’: “Il prefetto taliò il pacco con occhio fatto di subito lucido e speranzoso, la voce gli trimuliò… Si abbandonarono a una pausa, taliandosi occhio nell’occhio”. È un linguaggio della provincia siciliana che Camilleri ha la capacità di rendere particolarmente vivo. Con grande forza e immediatezza comunica una specie di nucleo di verità dell’essere siciliano. (Camilleri A., Il birraio di Preston, Palermo, Sellerio Editore, 1998, pag. 40-41). Questo taglio nella coppola, che anche il sognatore collega alla mafia siciliana, sembra rimandare ad un significato legato al ‘vedere’ e quindi allo svelare, con un’immagine dell’inconscio altrettanto viva e immediata che il linguaggio usato nel dialetto siciliano.

 

[7] Si può considerare il contenuto di un sogno come un messaggio che un intelligenza superiore, anche se arcaica, pesca dall’inconscio e lo propone come comunicazione significativa. (Whitmont E. C. – Perera S. B., Il linguaggio dei sogni, Roma, Astrolabio, 1991).                                                                                                                                                    

Jung chiama Sé questa entità e lo definisce “l’esistente a priori dal quale promana l’Io … ‘non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso’ ”. (Jung C.G., 1938/1940).

“Il termine [Sé] denota l’insieme complesso dei fenomeni psichici di un individuo. In particolare, il Sé, da un lato, riunisce gli oggetti dell’esperienza e quindi i fenomeni della coscienza e i contenuti e i fattori coscienti, dall’altro presuppone ciò che non è ancora nell’ambito della coscienza e quindi i contenuti e i fattori dell’inconscio, ovvero i fenomeni di quell’altra parte della psiche rimasta ancora inconoscibile e non delimitabile”. (Pieri P. F., voce Sé, in Dizionario Junghiano, Torino, Boringhieri, 1998).

Qui lo intendo come un Sé Guida, il Sé come stato psichico in continuo e costante confronto con l’Io.

[8] “Gli archetipi … sono allo stesso tempo immagini ed emozioni. Si può parlare di archetipi solo quando questi due aspetti si manifestino simultaneamente. Quando c’è solo l’immagine si tratta di una nozione di scarso rilievo, ma quando è implicata l’emozione, l’immagine acquista carattere numinoso (o una energia psichica): essa diventa dinamica e deve produrre conseguenze di un certo rilievo”.(Jung, C.G., Mondadori).

 

[9] Il sogno è per il singolo realtà privata, mondo che solo a lui appartiene, così come lo è la “realtà” di chi resta immerso in una sua “ragione privata”. Con il procedere del proprio percorso individuativo, viene posta all’essere umano la decisione tra il persistere nella sua “scena privata” e l’accedere alla mediazione tra mondo privato e mondo comune, partecipando dallo stato di frammentazione dei suoi sogni alla vita in generale. Al singolo non vengono così sottratti desideri, speranze, sentimenti. L’essere umano così si pone come Soggetto per riconoscere e far accedere al mondo obiettivo, quanto di interiore, di inconscio vive in lui, così che il mondo interiore divenga parte del mondo obiettivo, il mondo obiettivo prospettiva del mondo interiore. (L. Binswanger; G. Gasca; S. Montefoschi )

 

[10] È importante in questi casi, non essendo in assetto gruppale e rimanendo l’analista sempre seduto nella poltrona, sottolineare che non sarò più il suo analista ma una voce del suo mondo interiore o un personaggio dell’immagine onirica. Sono momenti delicati, sottili, primari e il doppiaggio è uno strumento che va usato in questi casi con molta cautela, specie quando si sceglie di doppiare sul piano dei vissuti, per dar voce alle emozioni che sono sottostanti, che sono pesanti e non hanno mai potuto venire fuori. Bisogna essere empatici, sintonici altrimenti il paziente sente anche una piccola differenza come una  dissonanza  che stona e crea allontanamento e razionalizzazione. Solitamente lo faccio quando riesco a sentire e percepire il vissuto dell’altro dando voce a ciò che provo. Questo risulta più facile, almeno per me, durante uno psicodramma di gruppo, poiché il mio corpo si muove ed è a contatto con il protagonista facilitando le connessioni emotive, mentre nel caso della seduta individuale, rimanendo fisicamente seduto sulla poltrona è più difficile e rischioso.

 

[11] A questo punto ci sono diverse possibilità per continuare a lavorare, come ad un incrocio diversi percorsi da scegliere: farle fare dei cambi con le parti dell’immagine (la casa, la libreria, il divano) e metterla a contatto con aspetti del suo mondo interno. In questo caso ho scelto di rimanere e abitare la scena onirica facendole sperimentare la possibilità di cogliere e accogliere insieme a me quella sofferenza senza rifugiarsi nei libri o regredire in fantasie e chiusure autistiche o in spazi infiniti e di  completa solitudine.

[12] Il gruppo è composto da 16 persone disposte in cerchio e ognuno ha raccontato la propria immagine emersa dopo un lavoro di riscaldamento.

[13] Nel riflettere successivamente sul lavoro mi sono reso conto che sarebbe stato necessario mettere, personificare il camino, poiché in caso di difficoltà dell’Io protagonista, cioè di possibili destrutturazioni o inflazionamenti, è importante avere la forma che contiene, una parte-funzione contenitrice. In effetti durante lo svolgimento ne sentii la mancanza ma riuscii con l’esperienza  a dare contenimento. Si potrebbe anche rilevare che la mancanza di questo nell’immagine potrebbe essere significativa o significante di una carenza strutturale.

[14] In questi casi non conoscendo nulla del protagonista chiedo a lui con quale parte dell’immagine vuole provare ad immedesimarsi, fidandomi delle capacità auto-contenitive. Alessio, dopo un momento di dubbio, sceglie il ceppo.

[15] Mi ricorda la reazione di certi cani quando sentono arrivare il temporale; quando si sentono minacciati dal fulmine e dal tuono e tremolanti vanno a cercare di nascondersi in qualche angolo, a ripararsi da qualche parte.

[16] Questa è una tecnica che ha come obiettivo quello di portare una parte interna del protagonista a prendere contatto con la struttura dell’Io; lui è ceppo e come parte ceppo si rivolge al protagonista, cioè a se stesso. All’inizio del gioco vengono assegnati i vari ruoli e quando vengono fatti i cambi, il protagonista va a interpretare il ceppo, mentre la persona che impersonava il ceppo va a mettersi al posto (nei panni) del protagonista.

[17] La condivisione, chiamata anche sharing è un momento dello psicodramma che vede protagonisti i partecipanti del gruppo al di là del transfert del paziente e dell’interpretazione dell’analista. Da una parte può ricordare la dialettica trasfert-controtransfert teorizzata da Jung in termini alchemici; dall’altra può corrispondere alla tecnica di Milton Erickson di guidare il percorso associativo del paziente raccontando episodi della propria vita. In psicodramma il rischio che il soggetto sprofondi nella messa in scena di un universo solipsistico e delirante è evitato, oltre che dall’intervento del regista-conduttore, dalla presenza degli spettatori (gli altri membri del gruppo che non hanno partecipato attivamente alla rappresentazione). Questi fanno eco al gioco rappresentato e restituiscono al protagonista il suo dramma così come riflesso nella loro storia e nel loro sguardo. Un incontro e un riscontro al tempo stesso empatico e problematizzante, più che un ingenuo e sentimentale augurio di reciprocità fusionale. Una circolazione del senso del dramma. Il dramma giocato con gli spettatori e davanti agli spettatori è un’opera aperta e riaperta, grazie alla pluralità dei suoi riflessi, dei punti di vista espressi nelle condivisioni finali, appunto la condivisione o sharing. Come dice Rosati: “Arrivati al momento dello sharing, che prende il posto di quello che a teatro sono gli applausi [o i fischi o il silenzio], il rapporto osservato-osservatore si ribalta. Accettando la condivisione dei vissuti omologabili al suo gioco, il protagonista scopre se stesso mentre scopre gli altri. Egli osserva le diverse scene dalle quali è stata osservata la sua scena. I palchi sono in realtà altri teatrini”. (Ottavio Rosati, J. L. Moreno e gli action methods. Prefazione all’edizione italiana, in, J. L. Moreno, Manuale di Psicodramma*, Il teatro come terapia, Astrolabio, 1985)

[18] L’immagine ha anche caratteristiche di sensualità, trama, emozione, ecc., ma sarebbe ampliare troppo in questo contesto.

[19] La scultura è una tecnica di drammatizzazione che mette in primo piano il corpo, capace di rappresentare ogni genere di situazione, utilizzando la postura, il movimento, il rapporto con lo spazio. L’insieme che si viene a definire viene reso visibile, sentibile e riconoscibile come fosse un personaggio, come in questo caso il fuoco e le sue parti. Questo consente un contatto pieno con l’immagine rappresentata e con i vari significati e significanti che essa ha per il protagonista. Inoltre è possibile far parlare, attraverso la tecnica del soliloquio o del dialogo, in prima persona e con spontaneità, quanto in quel momento sta sentendo, immaginando o pensando. Una specie di antropormorfizzazione che anima e racconta in prima persona chi è, cosa vuole, dove porta e anche cosa nasconde.

[20] Che è la possibilità di (ri)costruire, di ristrutturare un’immagine interiore di una figura materna abbastanza stabile da far provare un sentimento di sicurezza e fiducia anche durante l’assenza, la distanza e la macanza.

[21] Se prendiamo ad esempio una scacchiera, un bambino ne coglierà e ne esplorerà gli aspetti ludici; un falegname guarderà e studierà il tipo di legno con cui è stata fatta; un giocatore di scacchi vedrà la disposizione delle pedine, ecc.

[22] Anche per Freud il testo onirico non era autosufficiente per la comprensione. Per Jung la questione è più complessa. Da un lato ritiene che il sogno sia da mettere in relazione alla situazione contestuale della problematica del sognatore, senza la conoscenza della quale nessuna interpretazione è possibile; dall’altra ritiene il sogno depositario di precipitati non individuali che permettono di cogliere strutture e dinamiche dell’inconscio collettivo.

 

[23] C.G. Jung, “Die praktische Verwendbarkeit der Traumanalyse” (1934), trad. it.: “L’applicabilità pratica dell’analisi dei sogni”, in: Pratica della psicoterapia – Opere di C.G. Jung, Vol. 16, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 149-172 (pp. 158 sg.).

[24] M. Trevi, Saggi di critica neojunghiana, Feltrinelli.,Milano 1993, p. 99.

[25] Ringrazio il collega Adriano Alloisio per avermi concesso di prendere spunti dagli appunti delle sue lezioni alla Scuola li.s.t.a. (Libera Scuola di Terapia Analitica, Circolo di via Podgora, Milano).

[26] G. Gasca, Tecnica di analisi dei sogni nei gruppi di psicodramma analitico, in, Il sogno. Teatro interiore dell’anima: Esperienze di Psicodramma, Rivista di Psicodramma Analitico, n° 8, 1999/00, Lindau, Torino, 2000, p.2

[27] C.G. Jung, The Psychology of Dreams (1916/1948), trad. it.: “Considerazioni generali sulla psicologia del sogno”, in: La dinamica dell’inconscio, cit., pp. 253-299 (p. 285).

[28] Si può considerare questa ipotesi di lavoro, inserire in un contesto per cercare di dare uno sfondo, per cercare un ‘precipitato’ e quindi di ‘comprenderlo’ (contenere, includere, ‘prendere con me’), come il lavoro della catena di libere associazioni opportunamente prolungate per giungere ad evidenziare dei “complessi”, anche partendo da materiale completamente estraneo al paziente. Jung attraverso questo lavoro si propone di vedere che cosa attraverso il sogno l’inconscio fa di tali complessi . (Jung C.G.,1934).

 

[29] C. G. Jung, Applicabilità pratica dell’analisi dei sogni, in, Pratica della psicoterapia, Opere vol. 16, pag. 161

[30] “Non sempre è sufficiente chiarire solo il contesto intellettuale di un contesto onirico. Spesso s’impone la necessità di chiarire contenuti indistinti mediante una raffigurazione visibile. E’ un risultato che si può raggiungere disegnando, dipingendo o modellando. Spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l’intelletto si affanna inutilmente. Con la raffigurazione infatti il sogno continua a essere sognato – e in maniera esauriente – in stato di veglia, e l’elemento casuale inizialmente inafferrabile, isolato, viene integrato nella sfera della personalità totale, anche se inizialmente il soggetto non ne è cosciente. […] La volontà di comprensione che rinuncia a un’accurata raffigurazione si arresta all’intuizione grezza e si priva perciò di un fondamento adeguato. Essa può cominciare, con qualche prospettiva di successo, soltanto in presenza di un prodotto raffigurato. Quanto prima s’arresta l’elaborazione figurativa del materiale iniziale, tanto maggiore è il pericolo che la comprensione sia determinata non già dal dato di fatto empirico ma da pregiudizi teorici e morali.” C. G. Jung, La funzione trascendente, in, La dinamica dell’inconscio, Opere vol. 8, pag.102

 

[31] Attraverso i cambi di ruolo nella rappresentazione di un sogno si da voce ai personaggi interni, portandoli a confrontarsi, dialogare, rifiutare(si), integrarsi tra loro e con il nucleo di ruoli determinanti in cui l’individuo si riconosce. Diventa e si sente l’altro personaggio, ne assume il punto di vista , attiva i propri engrammi cinestesici, che non sono solo dei modelli motori ma contengono anche progetti del ruolo a cui si riferiscono. L’engramma cinestesico comporta un progetto di azione nel mondo, dà un significato al mondo. Nel momento che si assume il punto di vista di un altro si può scoprire qualche cosa che si ha dentro di se, una parte inconscia, un complesso autonomo che il proprio Io non conosceva, a volte è veramente sorprendente come questi nuovi punti di vista emergano. Cito una poesia di Moreno a questo proposito: “ Un incontro a due: occhi negli occhi, volto nel volto. E quando mi sarai vicino io prenderò i tuoi occhi e li metterò al posto dei miei, e tu prenderai i miei occhi e li metterai al posto dei tuoi. Allora io ti guarderò con i tuoi occhi e tu mi guarderai con i miei”. J. L. Moreno, 1914

 

[32] Il doppiaggio è uno dei punti fondamentali dello psicodramma analitico individuativo. Il conduttore solitamente si muove e si mette alle spalle del protagonista, sia quando fa la sua parte, sia soprattutto nei cambi di ruolo e a questo punto parla come se fosse lui. Può essere di tipo rogersiano ed esprimere un suo sentimento implicito aiutandolo a prenderne coscienza. Può essere di tipo paradossale esasperando l’immagine che il paziente ha e dà di sé, in modo da correggere una convinzione unilaterale e far emergere atteggiamenti opposti. Ma il doppiaggio più efficace, anche se deve essere usato molto bene per evitare il rischio di portare a delle razionalizzazioni, è quello riflessivo. In questo caso il conduttore ha la funzione di soggetto rispetto al paziente, cioè si identifica con il paziente ma poi se ne distacca e si pone come soggetto e si domanda: “che sentimento sto provando?”; “perché faccio questo?”; “che cosa voglio in realtà?”; “chi sono?”; “che parte del protagonista sono?”. Queste domande devono essere fatte stando alle spalle del paziente, a contatto fisico con lui e parlando in prima persona, cioè dicendo “io” e non “tu”, per far emergere gli aspetti spontanei e non interpretativi del protagonista.

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