Dr. Laura Stradella

RELAZIONE PRESENTATA ALLE GIORNATE “FRANCO FASOLO” COIRAG

Fiesole 6/8 maggio 2016

 

A  proposito di tempi brevi del cambiamento sociale e personale, vorrei portare l’esempio della maternità. L’archetipo della maternità ha il tempo lunghissimo dell’umanità intera, eppure, nel volgere di pochi decenni, il rapporto che le donne hanno con quest’aspetto fondativo della propria biologia e della loro identità è stato apparentemente ribaltato.

 Il mutamento delle condizioni socio economiche e della posizione della donna, purtroppo per ora a in gran parte limitato al Nord del mondo, accompagnato dalla contraccezione da una parte e dall’incremento delle tecniche di fecondazione artificiale dall’altra, hanno portato le donne a dover affrontare il tema da punti di vista nuovi[1].

Se nei secoli passati la fecondità poteva essere un destino ineluttabile (fino all’Ottocento il parto è stato la prima causa di morte per le donne), nei decenni recenti, l’emancipazione femminile e il movimento femminista, con le dovute eccezioni religiose e culturali, avevano introdotto con successo l’idea della maternità responsabile, posticipata in attesa di condizioni di sempre maggiore sicurezza e stabilità economica e affettiva.

 Ma il tempo di questa ricerca si è progressivamente dilatato, anche a causa della disoccupazione giovanile che costatiamo ogni giorno. Molte donne si sono così trovate ad affrontare una decisione, quella della maternità, che l’illusione di un’eterna giovinezza ha sempre ritardato.  Ora le tecniche di fecondazione artificiale forniscono una nuova speranza, spesso un’illusione, e comunque pagata a caro prezzo in salute e denaro, che la fecondità sia sempre a portata di mano.

L’archetipo della Grande Madre, che accompagna l’umanità intera nel suo tempo immemorabile, non può essere così facilmente liquidato, ma si mostra nei suoi molteplici aspetti: la generatrice potente e accogliente nella quale rifugiarsi o identificarsi, ma anche la distruttrice e annichilente, capace di risucchiare autonomia e linfa vitale, dalla quale fuggire, se non si vuole perdere il controllo della propria esistenza.

    Nel gruppo di psicodramma individuativo che conduco da circa sei anni, si sono avvicendate parecchie donne nell’affrontare questo tema, reso ancora più difficile dall’esperienza di un rapporto spesso doloroso e conflittuale con la propria madre. Il volto terribile della Grande Madre divorante si affaccia nelle scene psicodrammatiche e fa da sfondo archetipico alle immagini dell’inconscio personale.

Il gruppo intero, e non solo le donne, deve elaborare la barriera che l’esperienza di una “cattiva” genitorialità materna può opporre alla realizzazione della potenzialità di procreare, così radicale e irreversibile nella vita di ciascuno da modificarne l’identità stessa.

  Quanto, nel desiderio di maternità oggi vi è di narcisistico, legato ai tempi, alla società e alla straordinaria capacità umana di modificare la biologia, quanto invece di così radicato da essere, insieme alla morte, la legge fondamentale della vita?

  I tempi dell’inconscio e delle sue figure sembrano scontrarsi: il tempo archetipico della spinta alla maternità (tanto che il rinunciarvi è raramente un processo indolore), contro il tempo storico del conflitto intergenerazionale e dei complessi, nell’inconscio individuale ma anche sociale, portatore d’immagini di guerra, di contrasti collettivi e catastrofi ambientali, ancora contro il tempo dell’oggi, in cui si è chiamati a cercare risposte a conflitti non solo personali.

Tutto si deve condensare nel tempo brevissimo della seduta di psicodramma, che forse muoverà qualche cosa addirittura negli abissi della fisiologia, tanto che Alba, che da qualche tempo lo desiderava, ma temeva le trasformazioni del suo corpo, rimane incinta, dopo aver giocato in gruppo alcune delle esperienze difficili che sembravano bloccarla.

 Prima però porterà un sogno: le antenate della famiglia le chiedono di vedere il suo abito da sposa, che nell’immagine onirica è un grazioso premamam.

 Oltre l’orizzonte temporale e ideologico personale, al terapeuta resta la responsabilità di discernere nell’esperienza di ogni singolo individuo, di comprendere se qualche evento abbia trascurato il senso profondo dell’esistenza umana, se nell’esperienza transgenerazionale o personale sia inciso un limite invalicabile, il cui superamento minaccia l’integrità del Sé[2], oppure se sia possibile elaborarlo e travalicarlo, sollevando dal dolore.

 Al terapeuta e al paziente, insieme, è comunque dato il compito di offrire un significato nuovo, prima occultato, al tempo della vita, e talvolta di creare lo spazio, nella psiche prima ancora che nel corpo, per una vita nuova.

 

[1] S. Ceresa e G. Gay maternità oggi: ombre e luci.  Generazioni confronto in C. Gatti, R. Ricci e L. Stradella (a cura di) Miti utopie e crudeli catastrofi, Persiani, Bologna 2017.

 

[2] D. Kalsched Il mondo interiore del trauma Moretti & Vitali, Bergamo 2001.

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